sabato 15 gennaio 2011
A Mirafiori vince il sì e perde il paese
Lo spoglio, concluso nella notte, ha dato il suo verdetto: a Mirafiori ha vinto il “sì” al referendum sull’accordo siglato tra Marchionne e i sindacati “aziendali” (Cisl, Uil, Ugl). Ma è una vittoria risicata, con appena il 54 % dei consensi.
In termini reali, appena 410 voti di differenza.
Un risultato che ci obbliga ad alcune considerazioni.
Il “sì” ha vinto con un voto estorto a molti operai che, intervistati, hanno affermato apertamente di condividere le ragioni del “no” e della Fiom, ma di aver votato “sì” per paura di non perdere il posto di lavoro. Cioè quanto paventato da Marchionne in caso in cui l’accordo da lui voluto non fosse stato ratificato dalla fabbrica.
Ciò nonostante la vittoria del "sì" non è stata schiacciante, per tutta la notte è stato un testa a testa. Addirittura i primi due seggi scrutinati avevano certificato il vantaggio temporaneo del “no”.
Alla fine i 410 voti di differenza dimostrano che il “sì” ha prevalso grazie agli impiegati e ai quadri presenti in fabbrica. Se avessero votato solo gli operai, la forza lavoro, coloro che stanno in catena per otto ore filate, avrebbe vinto il “no”.
Adesso questo risultato apre una serie di scenari e lascia sul campo una teoria di problemi e interrogativi.
La Fiat, e il suo ad, hanno incassato il risultato che volevano. Ma adesso dovranno rispettare l’accordo, mettere sul piatto 1 miliardo di euro, svelare a tutti il piano industriale (finora tenuto nascosto) e i modelli che si vorrano produrre a Mirafiori.
Uno dei quali, già si sa, sarà un Suv Chrysler con i motori e altre componenti prodotte a Detroit e assemblato sulla carrozzeria realizzata a Torino. Quindi un prodotto che impiegherà solo parzialmente la mano d’opera italiana.
Succederà lo stesso per gli altri modelli?
Il “successo” di Marchionne al referendum avrà anche ripercussioni sul mondo sindacale e politico. Intanto pone un problema di rappresentanza all’interno delle fabbriche in una fase in cui i rapporti tra capitale e lavoro, in un contesto globalizzato e in un periodo di crisi internazionale, hanno raggiunto una nuova preoccupante soglia di iniquità. E poi pone un problema politico. Di politica industriale. Che questo governo non è in grado di affrontare, ma che neppure le forze d’opposizione sembrano essere in grado di prendere in carico. Basti vedere le posizioni deboli, confuse, ambigue, spesso antitetiche espresse da illustri esponenti del PD.
Di fronte a un imprenditore che minaccia di chiudere la fabbrica e spostare altrove la produzione, un partito di tradizione laburista dovrebbe avere la forza e la capacità di contrapporsi, obbligandolo al dialogo e alla trattativa, illustrando idee e programmi alternativi con i quali poi arrivare a una sintesi.
Ma nessuna forza nè di governo (ça va sans dire) nè di opposizione pare in grado di possedere. Gli scenari aperti sono tanti. Un nuovo modello contrattuale potrebbe fare “scuola” e portare a una riduzione generalizzata di diritti e tutele che vada ben oltre lo specifico della Fiat.
Siamo di fronte a uno snodo epocale, con la disoccupazione ai suoi massimi livelli che rende vulnerabili e ricattabili i lavoratori. Tra i tanti problemi di prospettiva, uno fondamentale – che andrà risolto - riguarda anche il sindacato e la sua capacità di stare in fabbrica accanto agli operai.
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"La maggioranza sta come una malattia!" ( De Andrè)
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