Una vera leggenda dell'underground, Stew. Che, dopo vent'anni spesi a regalarci riff graffianti e canzoni straordinarie, ha finalmente deciso di firmare il suo primo album da solista.
Si intitola "The Floating Life" ed è appena uscito in Spagna - via Bang! Records.
Racchiuso in una lussuosa confezione digipack, "The Floating Life" è un disco intimo, privato, personale.
Sin dalla bellissima foto di copertina, la quiete dopo la tempesta nello sterminato paesaggio australiano, si intuisce anche la portata sonora di questo disco registrato in perfetta solitudine nello studio di casa, nell'estrema periferia a sud di Sydney.
Chi era abituato ai contundenti riffi chitarristici di Leadfinger (con Brother Brick e Asteroid B-612) o ai solari brani power-pop dei Challenger 7, forse rimarrà sorpreso da "The Floating Life".
Io ne sono rimasto piacevolmente sorpreso.
"The Floating Life" è un disco sinceramente ispirato e svela il lato intimo del più grande songwriter australiano degli ultimi dieci anni.
Molti umori convivono nella tessitura dell'album: se l'iniziale "Went Looking" - solo per chitarra acustica e voce - è quanto di più personale ci si possa attendere, la splendida "Edge of Suburbia" è un episodio delicato e intimista, dagli aromi blues. La celebrazione della solitudine come luogo dell'anima: "I got lost in suburbia/hanging out at the edge of the world/They can't find me here in suburbia.../I'm at the end of the world".
In "Thin Lizzy" Stew riprende la sei corde elettrica per regalarci un altro dei suoi imbattibili frammenti power-pop, dedicato stavolta a un suo idolo di gioventù: Phil Lynott.
La romantica "Boo Radley" cede il passo all'atmosfera rarefatta e desertica di "Back in the Burgh", mentre "So In A Hurry" è un'incredibile ballata dalle sfumature psichedeliche.
Con "The Sydney Way?" Leadfinger dà un po' di gas al disco con un brano ravvivato da una sezione ritmica e dai guizzi della sua chitarra. "Bicycle Man" è un divertissment acustico che prepara il terreno alla title-track - "The Floating Life" - ispirata all'opera del poeta australiano John Forbes. E anche questa sembra una potente dichiarazione dal profondo dell'anima: "I wanted to survive, I wanted to get high/I wanted to invite/I wanted to incite, I wanted just enough/I wanted to depart/Iwanted to imbibe/I wanted to survive".
"The Philadelpia Ruse" si apre a spiragli di luce con uno splendido fraseggio chitarristico, ma è la conclusiva "The Music Had The Last Say" che ci regala uno dei momenti più ispirati dell'album. Un brano intenso, nella sua delicatezza elettro-acustica, dedicato all'amico e compagno di avventure Sean Greenway, prematuramente scomparso nel 2001.
Un altro prezioso tassello di un disco intimo e splendido.
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